Pioggia (Regen) – Joris Ivens (1929)

Chi ci segue e conosce le origini del cinema e del muto ha ben nota la bipartizione, riassunta nella coppia Lumiere – Melies, con cui si annunciano già dai primi anni le strade maestre dell’arte cinematografica: la finzione e il documentario. Se la prima ha il merito di creare altri mondi e altre realtà possibili, la seconda si è caricata del compito di mostrare, non lasciandolo sfuggire, la vita che scorre quotidianamente sotto i nostri occhi o lontano da essi. Razionalizzando, nessun film e nessun prodotto audiovisivo è puramente l’una o l’altra cosa, ma ciascun’opera è a suo modo un ibrido personalissimo, per vocazione o per necessità. C’è anche chi, da documentarista, ha voluto ugualmente sfidare la creazione e dare un volto completamente nuovo alla realtà, non puntando alla fedeltà o alla testimonianza, ma al racconto e allo sviluppo di una forma narrativa, al contempo idealista e critica.

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Tra questi Joris Ivens, uno dei maggiori autori cinematografici olandesi ed europei, che cominciò a “giocare” con una cinepresa presa in prestito dal negozio del padre, fotografo di Nimega, un’antica città dei Paesi Bassi al confine con la Germania, per poi interessarsi sempre più seriamente alle capacità della fotografia e del montaggio. Per anni girò scene “cittadine” con una cinepresa leggera e molto maneggevole, la Kinamo, semplicemente andando a spasso per i viali e riprendendo ogni quadro che gli sembrava interessante. Col passar del tempo si focalizzo su due soggetti di ricerca: il ponte sollevabile di Rotterdam e la pioggia con i fenomeni atmosferici ad essa collegati. Ne risultarono due film, intitolati proprio Il ponte (1927) e Pioggia (1929), di cui curò ogni parte del progetto, riprese, sviluppo, montaggio. Tutte tranne una, il commento musicale. Tra i due fu Pioggia, il cui titolo originale è l’olandese Regen, ad avere maggiore successo e a lanciare Ivens nel panorama mondiale: non di secondaria importanza fu la proiezione alla serata conclusiva della prima Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del ’32, dove accolse ottime critiche e impressioni. Erano gli anni della rivoluzione musicale di Schonberg, Webern e Stravinskij, delle avanguardie storiche e degli sperimentalismi letterari. Ivens è imbevuto di tale fermento e con Pioggia mette in scena un formalismo narrativo e figurativo non senza precedenti ma forse più carico e potente di episodi simili.

La città protagonista è Amsterdam e la trama, se così si può definire, ha al centro il passaggio di una perturbazione atmosferica, descritta nel suo arrivo, nel suo crescendo di intensità e nel degradare finale fino al ritorno del bel tempo. L’andamento è musicale, ritmico, come un contrappunto a tre voci tra movimento interno alla scena, movimento della cinepresa e tagli di montaggio. Sono frequenti le ripetizioni o la riproposizione di figure simili tra loro, quasi si procedesse per imitazione a partire da un tema di per sé semplice e essenziale, che se si fosse in musica si direbbe breve e composto da intervalli stretti. La pioggia rivela, grazie a Ivens, tutta la sua capacità di trasformare il mondo e di svelarne uno differente: gli oggetti e le strade da superfici opache diventano specchi in cui tutto è deformato, mobile e capovolto; al contrario tutto ciò che era trasparente diventa opaco e segnato, coperto da una patina che rende irriconoscibile il conosciuto.

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Pioggia è pieno di riprese centrate su questi ostacoli visivi e su queste visioni riflesse e cangianti, sono quasi assenti riprese da angolature canoniche, ad altezza di sguardo, come assente è l’uomo come protagonista attivo, fatta eccezione per l’inquadratura in cui un uomo tira fuori la mano dalla tasca per verificare se stia piovendo o meno, per poi tirarsi su il bavero. L’uomo è una figura, una forma, così come gli uccelli che volano nervosi, le barche, le foglie cadute nel fiume, i tubi, i canali sul tetto e le gocce stesse. Non c’è gerarchia, come se si fosse in un’orchestra e ciascuno abbia un ruolo definito e fondamentale.
Non siamo lontani da Berlino – Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann o da L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov, ma i risultati, gli ibridi come si diceva in principio, sono ben diversi. Pioggia è più vicino ad un cinema lirico – è stato infatti definito un cine-poema – in cui le scene e le immagini non sono scelte per mostrare, né per dimostrare, ma piuttosto per evocare sensazioni e collegamenti figurativi imprevisti.

Pioggia, per le sue qualità ritmiche e “musicali”, ha ispirato più compositori lungo l’arco del novecento, tanto che l’edizione restaurata pubblicata dalla Just Bridge Entertainment sul primo dei cinque dvd contenuti nel cofanetto Joris Ivens, Wereldcineast, in cui è sintetizzata gran parte della sua opera e del suo percorso artistico, contiene ben tre versioni di Pioggia. Due con il commento sonoro di Lou Lichtveld, nelle registrazioni del 1932 e quella superba del 2002, e la terza frutto di una versione sonora del 1941, con musiche di Hanns Eisler. Quello di Lichtveld sembra di gran lunga l’accompagnamento ideale, è di carattere impressionista, a volte ricorda Debussy ed è puntellato da molti momenti di crisi tonale: la parte affidata ad un’arpa non accordata in maniera convenzionale è un piccolo capolavoro che descrive la caduta delle ultime gocce e l’aprirsi-allontanarsi delle nuvole. Eisler invece forza la mano puntando ad un approccio dodecafonico piuttosto fine a sé stesso e il suo commento sembra restare scollegato dallo sviluppo delle immagini di Ivens. Stessa sorte, in parte, ha l’accompagnamento per chitarra sola di Larry Marotta scelto per l’edizione Kino. Si tenga conto che quest’edizione, per quanto riguarda la parte visiva, non presenta il frutto di alcun restauro e la qualità è piuttosto scadente, non fornendo un supporto adeguato a godere di un’opera che proprio nei dettagli, nei contrasti e nelle minuzie visive ha i suoi protagonisti.

Pioggia venne profondamente apprezzato niente meno che da Pudovkin, in quel momento al vertice della sua attività artistica e teorica, che chiamò Ivens per presentare i suoi lavori a Mosca ad una riunione dell’Unione dei registi cinematografici sovietici. Il suo occhio attento alle città, alle industrie e, nei lavori successivi a Pioggia, al popolo e alle condizioni sociali ed economiche dei lavoratori non poteva che renderlo familiare al clima russo, che lo accolse con favore e lo stimolò a realizzare alcuni film che segnarono definitivamente il suo futuro artistico.

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