L’ultimo avviso (The Last Warning) – Paul Leni (1929)

6e1be179c9477b69b0a6291171050bb8Paul Leni non era interessato ai suoi soggetti, non affidava a loro nessun significato ulteriore: era interessato ad essi solo in quanto capaci di adattarsi alle sue idee scenografiche o perché vi intravedeva grosse potenzialità per la messa in scena. Questo spiega l’enorme disparità e diversità delle storie che ha avuto tra le mani.
Per i suoi tre capolavori – La scala di servizio, Il gabinetto delle figure di cera e L’uomo che ride – il suo contributo è stato puramente rivolto ad offrire il miglior ambiente espressivo, favorevole ai personaggi in gioco, non ha mai forzato la vicenda o condizionato l’impianto delle scene così come venivano fuori dagli sceneggiatori. La sua regia, perciò, si apprezza meglio nel contorno che non nei suoi protagonisti, più nelle scene “riempitive” che non nelle scene madri, ciò che anima il suo stile sono i figuranti, i particolari, le espressioni rubate, le inquadrature degli ambienti zeppi di oggetti e colmi di personalità: tutto ciò su cui poteva esprimersi liberamente, senza varcare le soglie del suo mestiere.

L’ultimo avviso (titolo originale The Last Warning) è l’ultimo film di Leni, girato nel 1928 e uscito nel gennaio 1929, otto mesi prima della sua prematura scomparsa a quarantaquattro anni, per un’infezione non curata. Proprio questo film può essere considerato emblematico per il suo approccio geniale e discreto. L’ultimo avviso è un mistery che vira alla commedia, ancora oggi piacevolissimo e godibile anche per spettatori a digiuno di arte muta. Fu girato con le intenzioni di farne, almeno in parte, un sonoro; la corsa ai talkies era appena cominciata e l’aggiornamento tecnico per “ascoltare i film” non aveva ancora riguardato tutte le sale, molti film venivano così girati in doppia versione, sonora e muta, così da permette comunque la distribuzione delle opere nei grandi circuiti. Per ironia della sorte, le uniche copie sopravvissute dell’ultimo film di Leni sono solo in versione muta, impedendoci di vedere il regista di Stoccarda all’opera col nuovo formato e, allo stesso tempo, relegando Leni ai confini del cinema muto che pure temporalmente aveva superato.

Il soggetto era ripreso da una commedia di Broadway, che ebbe gran successo sei anni prima, e che risulta piuttosto semplice, per non dire esile. Durante una rappresentazione di un dramma, intitolato The snare, John Woodford (Corrigan D’Arcy), nei panni del protagonista, muore dopo aver preso tra le mani il candelabro con cui avrebbe dovuto uccidere, nella finzione, il proprio antagonista. La morte resta senza spiegazione e il corpo sparisce, senza che nessuno se ne accorga. I sospetti cadono sulla coppia di attori formata da Doris Terry (Laura La Plante) e Richard Quayle (John Boles), vista la corte sempre più decisa che Woodford stava tenendo a Doris, ma la mancanza di prove portano ad un nulla di fatto. Anni dopo si decide di riaprire il teatro e inaugurare la nuova stagione proprio con The snare, viene richiamato il cast originale, ma durante le prove si succedono incidenti misteriosi e apparizioni improvvise, assieme a numerosi avvertimenti e altrettante minacce rivolte agli attori e al nuovo proprietario del teatro, il sospettoso Arthur McHugh (Montagu Love). Un’altra morte, nuovamente nella scena del candelabro, mette in guardia McHugh e il produttore Robert Bunce (Mack Swain) che richiedono una cospicua presenza di polizia nella sera della prima. Proprio davanti al pubblico, un’istante prima che il candelabro sia usato, viene smascherato il colpevole.

Di fronte a tanta linearità Leni guarda oltre e propone un sostanzioso lavoro sui movimenti di camera, vertiginosi e ampi: campi larghi che si avvicinano sino al particolare, spazi esplorati in lungo e in largo, punti di vista insoliti, che vanno dal soffitto ad un grandangolo poggiato sul pavimento mostrando, come meglio non si potrebbe, il vuoto del teatro abbandonato, un’immagine così forte da poter essere “ascoltata”, guardandola si percepisce il silenzio, lo scricchiolio del legno e i passi che risuonano. Ciò che però fa davvero fare il salto di qualità al film è l’utilizzo dei piani e dell’espressività dei volti. Non c’è scena che sia priva del rapporto solo-tutti, ottenuto il più delle volte con primo piano e piano americano; ogni personaggio riesce così ad emergere nella sua specifica individualità, non ci sono figure secondarie e questo grazie anche a delle particolari espressioni di ciascuno che diventano quasi dei leitmotiv identificativi, talmente sottolineati da diventare memorabili – il gaio fischiettare e danzare di Robert Bunce, gli occhi spalancati del fratello Josiah, il ridere di paura di uno dei tecnici.

Non mancano effetti speciali, dalla veduta della città che viene ricoperta di giornali con titoli sull’omicidio, alle tetre figure del colpevole mascherato e di un’attrice che caduta tra le ragnatele appare come un fantasma mummificato, oggetti che si muovono da soli, doppie esposizioni e particolari effetti ottici in sfocato che comunicano tutta l’incomprensibilità della vicenda agli occhi degli attori che la stanno vivendo. Anche i titoli non sono esenti dall’essere utilizzati in funzione espressiva, scorrono, si ingrandiscono, si sdoppiano e si deformano, restano fermi solo quando le scene si fanno più convenzionali e serene.

Il commento sonoro è originale, fu composto da Joseph Cherniavsky, e si alterna in più sezioni con effetti sonori e rumoristici. È interessante notare il suo stile, atipico per il cinema statunitense e più vicino all’ambiente musicale europeo, dove in quegli anni si stava compiendo una vera e propria rivoluzione (Schoenberg, Ravel, Skrjabin) che sarà poi completamente inglobata nella musica da film dei decenni successivi.

Leni chiude così la sua parabola con tre film di genere, simili tra loro, Il castello degli spettri, il perduto The Chinese Parrot (1927) e questo L’ultimo avviso, tutti a metà strada tra il giallo, la commedia e il rosa, una tipologia di film che certamente il suo lavoro in Europa non faceva presentire. Eppure proprio questa sua indipendenza dal genere, questo suo eclettismo ovunque efficace e pervasivo, ne avrebbe fatto un protagonista di spicco del cinema americano che stava per prendere quota. Resta un corpus disomogeneo, lacunoso, sparso – troppi i film perduti e molti i film di altri autori a cui ha apportato contributi significativi e che andrebbero a loro volta indagati – ma ciò nonostante esemplare e ammirevole, a cui molti, ancora oggi, potrebbero guardare per le proprie creazioni.

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