Afghanistan, nel cuore dell’Asia, è ferita in queste ore dal ritorno dei talebani e dell’Emirato islamico. Il dolore per una lunga guerra che ha portati morti e distruzione e di fatto è stata solo l’interludio per un ritorno al passato deve far riflettere riguardo gli interventi futuri da parte degli stati occidentali. Cosa ne sarà delle conquiste culturali e sociali fatte in questi anni? Il fatto che i talebani non abbiano sostanzialmente trovato resistenza con un esercito di Ashraf Ghani scioltosi come neve al sole mi fa sorgere il dubbio su quanto questi cambiamenti fossero in realtà sentiti e accettati dai più ma non conosco sufficientemente la situazione locale per dare giudizi certi. Torniamo allora al cinema muto e in particolare al 1928 quando una spedizione russa si spinge fino agli impervi territori afgani per fare un documentario che cerca di imprimere la vita di questi luoghi andando anche là dove “gli infedeli non erano stati precedentemente ammessi”.
La troupe prima attraversa l’Amu Darya e poi si dirige verso Kabul attraverso strade desolate interrotte da piccole oasi. Si passa per i monti Hindukusch e la giungla circostante, si attraversa il fiume Ghorbund su zattere per arrivare infine a Paghman dove il re riformista Amānullāh Khān aveva trasferito la sua residenza. Qui vediamo i rappresentanti delle pianure e delle popolazioni nomadi vestiti “alla europea” perdendo i loro vestiti tradizionali in favore di giacca, cravatta e cappello. Si passa dunque a vedere come funziona l’agricoltura locale, molto arretrata e con metodi di raccolta e lavorazioni giudicati “primitivi”. Abbiamo poi la raccolta dei datteri (con gli uomini che si arrampicano sugli alberi) o delle canne da zucchero. Si passa poi alla sezione più dolorosa per noi a livello culturale con la visione dei reperti archeologici persiani e poi dei famosi Buddha della valle del Bamiyan con le statue distrutte dai talebani nel 2001. Questa è ovviamente una testimonianza incredibile a livello storico. Si arriva poi ad analizzare le varie etnie presenti sul territorio tra indiani, nomadi e discendenti dei mongoli con brevi descrizioni etnografiche.
Amānullāh Khān tentava in quegli anni di occidentalizzare l’Afghanistan ed è interessante vedere in questo documentario le differenze tra chi si stava adattando frequentando scuole all’europea e vestendosi all’occidentale e chi, invece, era ancorato alla tradizione imparando nelle scuole islamiche o di altro tipo e vestendosi alla maniera tradizionale. Si vedono diverse donne che portano il burqa ma comunque si recano a scuola anche loro. Le donne più progressiste portano comunque almeno un velo trasparente. La politica nei confronti dell’emancipazione femminile era particolarmente centrale nelle riforme del monarca che passò addirittura a proporre l’abolizione del velo. La prima donna a svelarsi fu proprio la regina Soraya.
Questo documentario è importante anche perché riesce a dare voce agli ultimi istanti del governo progressista afgano prima che, nel 1928, partisse la rivolta guidata da Habibullah che costrinse poi il sovrano ad abdicare nel 1929 cercando rifugio nel nostro paese. Quando Habibullah Kalakānī prese il potere instaurò un emirato e impose il burqa a tutte le donne ponendosi in netto contrasto con la politica del suo predecessore. Insomma tra corsi e ricorsi storici ieri, come oggi, scopriamo un’area in cui il progresso e il regresso si alternano senza soluzione di continuità e in cui sono le guerre civili a dominare incontrastate.