Sembra che me lo facciano appositamente: dopo le cantilene “metriche” di Geomsa-wa yeoseonsaeng (1948) ecco Phil-for-Short che parla della figlia di un noto grecista che si innamora di un altro grecista ma misogino. Nel mezzo delle presunte ricostruzioni di balli greci ripetute fino alla nausea. Sarà riuscita questa “ambientazione” classicista a far breccia nel mio cuore? Sfortunatamente no! Ammetto di essere uno di quei folli che ha fatto una formazione, e ha anche insegnato, greco e latino come “lingue vive” ma il fatto che questo metodo implichi il parlare in lingua non significhi certo che si debbano scrivere saggi in greco antico come fanno i personaggi di questo strambo film. Il metodo, infatti, si basava anticamente, e si basa ancora oggi, principalmente sull’acquisizione del cosiddetto lessico frequenziale che significa sostanzialmente che sono le parole che compaiono più di frequente nei testi classici. Lo scopo, insomma, non è andare in giro a parlare latino o greco o scrivere assurdi trattati ma leggere i testi antichi avendo bene in mente le differenze di stile e di utilizzo di alcuni termini. Per esempio è diverso in italiano dire vedere o sbirciare: ecco con questo metodo possiamo notare la differenza, per esempio, tra videt e aspicit. Chiuso questo pistolotto, il film presenta in realtà un elemento molto interessante ed è il motivo per cui il film è stato presentato alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone per la sezione Nasty Women. La protagonista è infatti, per volere dello stesso padre, estremamente libera di manifestare la sua identità senza alcun tipo di limitazione e questo crea però scompiglio tra i bigotti della città. Parliamoci chiaro, il libertinismo della giovane non è assolutamente di tipo sessuale, ma si limita alla possibilità di vestirsi con abiti maschili e fare lavori da uomo sul campo e con il bestiame fino a vestirsi in maniera molto femminile per fare, privatamente nel suo giardino, i famosi balli greci di cui sopra. Il fatto che si vesta da maschio e si faccia chiamare Phil, non fa mai perdere la femminilità alla giovane e questa è sicuramente la cosa più affascinante di tutte. Questi splendidi presupposti di scontrano poi nella parte realizzativa dove gli sceneggiatori Clara Beranger assieme a Forrest Halsey, forse nel tentativo di allungare il brodo, creano sostanzialmente un film che nasce dall’unione di due cortometraggi.
Damophilia (Evelyn Greeley), figlia del celebre grecista professor Illington (Charles Walcott), vive una vita spensierata e libera fino alla morte del padre. A quel punto entrano prepotentemente nella sua vita la bigotta Eliza MacWrath (Ann Egelston) e quello che diventerà suo tutore, Donald MacWrath (Jack Drumier) il quale disdegna la sua condotta e, per altro, vorrebbe anche sposarla. Per farla desistere, arrivano a licenziare l’amato violinista Pat Mehan (James Furey) e a chiuderla in camera. Questo è però troppo per la ragazza che decide, travestitasi da uomo, di fuggire di casa con Pat. In questo suo viaggio senza meta incontra John Alden (Hugh Thompson), giovane insegnante di greco che ha sviluppato una forte misoginia dopo aver scoperto che la donna che amava lo voleva, in realtà, solo per il suo denaro. Inutile dire che, nonostante John faccia di tutto per evitarlo, i due finiscono per sposarsi. E qui ci aspetteremmo la fine… e invece no! Lui infatti non si è innamorato di Domophilia ma l’ha sposata solo perché la giovane aveva, travestita da uomo, passato la notte in casa sua e questo avrebbe potuto creare una sorta di scandalo. La seconda parte di film è dunque incentrata sul tentativo della ragazza di far innamorare di lei il marito.
Non ho amato il film perché, a mio avviso, ha ritmi troppo lenti per la costruzione comico-farsesca che vuole creare. Si tratta, evidentemente, di una storia che porta all’eccesso alcuni comportamenti di ambo i sessi facendoli poi culminare in un ritorno alla normalità: Damophilia riprende tutta la sua femminilità mentre John cede di fronte all’amore. Il problema è che questa costruzione, probabilmente sentita come originale, che porta avanti la vicenda oltre il finale solito (il matrimonio) mi ha portato solamente a domandarmi quanto mancasse ancora alla fine del film. Mi sono sentito un pochino come durante la visione di Her First Flame (1920) dove lo spunto interessante di dar vita a un mondo matriarcale lascia subito lo spazio a una costruzione poco originale e ragionata. Qui l’intento parodico mi pare spezzi completamente anche ogni speranza di poter immaginare il film come fautore di un’idea di genere o effettiva libertà di costumi all’avanguardia. Questo è, a mio avviso, desumibile anche dal finale dove, come detto, tutto deve tornare alla normalità perché si è scherzato fino ad ora ma poi non sia mai che una donna faccia “l’uomo”. A complicare le cose c’è stata l’antipatia generale per tutti i personaggi. La stessa peperina Phil, è in realtà piuttosto fastidiosa e non brilla mai né nel suo essere esuberante né nel momento in cui deve dare spazio a momenti più drammatici. Ci sono ovviamente cose che ho apprezzato, come le didascalie, che sono inserite all’interno del film vero e proprio (non so come altro dirlo ma basta che vedete il primo screenshot per capire), o comunque molto “interattive”. Ultimo appunto, prima di chiudere: mi sono chiesto quanto la misoginia del grecista John sia un possibile riferimento all’omofilia antica ma non saprei davvero dire quanto sia voluto. Di certo è ambigua la frase che la madre del giovane dice alla novella cognata: “ti siamo molto grati di aver riportato a casa il nostro esule” (en. “we’re very grateful to you for having brought our exile back home“).
Insomma, tirando le somme, Phil-for-Short va preso per il film leggero che vuole essere pur se condito da questi elementi insoliti e funestato da difetti più o meno evidenti. Per intenderci è un film sicuramente strambo e potenzialmente attraente ma le cui bizzarie non sono di fatto così ben fatte da rende il film memorabile. Vi invito, come sempre, a tenere comunque presente la mia avversione per le commedie, quindi potremmo forse navigare verso una sufficienza piena.