Il 1921 è indicato nelle storie di cinema come l’anno in cui si afferma una nuova sensibilità e una nuova forma cinematografica: il Kammerspiel, letteralmente “rappresentazione da camera”.
Il Kammerspiel, originariamente di concezione teatrale, può essere paragonato a ciò che in musica viene similmente detta “musica da camera” dove sono previsti solo un piccolo numero di strumenti, tutti diversi tra loro, così da trasmettere il valore, il suono, il timbro caratteristico di ciascuno in una dimensione più intima e ristretta, quasi fosse un dialogo tra individui.
Su questi termini Max Reinhardt pensò il suo teatro da camera, a partire dal 1906: rappresentazioni in sale di dimensioni ridotte, con pochi attori, tipicamente tre, e un piccolo pubblico che poteva così seguire da vicino tutti quei gesti e quelle espressioni più sottili che una vasta platea necessariamente perde. Ciò permise la messa in scena di opere più introspettive, psicologizzanti, caratterizzate nei minimi dettagli, opere in cui, secondo un aneddoto del tempo (1), per un gesto che in un gran teatro avrebbe richiesto di sollevare l’intero braccio sarebbe ora bastato muovere un dito. Ruolo portante sarebbe stato quello della parola e della sua assenza, il tutto legato al ritorno alla dimensione aristotelica del dramma con la sua unità di luogo e tempo.
In termini cinematografici al linguaggio verbale si sostituì naturalmente il linguaggio visivo, con l’ambizione di un cinema del tutto privo di didascalie (titelloser Film), in cui a prevalere era la mimica degli attori e gli ambienti, il più possibile essenziali e simbolici. I legami tra cinema e teatro nel cinema tedesco degli anni del muto sono sempre stati forti e significativi, con una fitta trama di interscambi di personalità e idee. Carl Mayer, Lupu Pick, Leopold Jessner e Paul Leni, le quattro figure alle radici di questa tendenza sono tutte ben legate al mondo del palcoscenico. Ma chi può dirsi vero artefice della transizione del Kammerspiel dalle scene alla pellicola è Carl Mayer, sceneggiatore di Das Cabinet des Dr. Caligari (1920) di Wiene e successivamente dei più grandi film di Murnau tra cui Der letzte Mann (1924) e Sunrise. A song of two humans (1927) fino all’avanguardista Berlin: Die Sinfonie der Großstadt (1927) di Walter Ruttmann.
Mayer ha attraversato, incorporato e dato sostanza a tutte le anime del cinema tedesco, i suoi scenari, spesso adattamenti di opere letterarie, sapevano dare ai film una struttura narrativamente e simbolicamente solida ma lasciando allo stesso tempo molto spazio inventivo al regista che poteva indirizzarne fortemente il risultato. Anche un regista di buon mestiere, ma che non poteva certamente dirsi un vero e proprio autore, come Lupu Pick col supporto di Mayer ha potuto girare un paio di film entrati nel canone, almeno tedesco, del muto: Scherben (1921) e Sylvester (1924).
Quest’ultimo è forse il capolavoro del Kammerspiel ma già se ne distacca come forma, punta al simbolismo, lavora sul montaggio: è l’ultimo passo verso la forma unica e indefinita di Der letzte Mann. Scherben invece è il prototipo del Kammerspiel, è essenzialità e immediatezza: un nucleo familiare nei suoi gesti ripetitivi e quotidiani e un elemento esterno che ne sconvolge la serenità (l’ispettore ferroviario che violenta la figlia), un unico luogo, la casa di famiglia, dalla quale si esce solo nel finale mostrando l’interno di un treno e quindi ciò che è fuori dalla casa, il resto del mondo, che ne scopre la tragedia, tanto personale da non riuscire a capirla, e passa oltre.
Se Pick è per Mayer una tappa tra il Kammerspiel e il naturalismo simbolico di Murnau, tra il cinema da camera e l’espressionismo si colloca Hintertreppe (1921). Il regista in questo caso è Leopold Jessner, affermatissimo nel teatro, che volle tentare le potenzialità del mezzo cinematografico portandovi tutto il suo bagaglio di idee di scena. I protagonisti sono ancora tre e per la quasi totalità del film sono le sole figure umane visibili. Due rappresentano la normalità, la serenità, l’amore, sono la domestica (Henny Porten) e il suo fidanzato (Wilhelm Dieterle); il terzo è il postino (Fritz Kortner) anormale, impulsivo, capace di estrema dolcezza e fredda violenza.
Il postino è innamorato della donna ed è divorato dall’invidia nel vedere i suoi incontri notturni tanto da ingannare la donna e non recapitarle la posta del fidanzato che la avvertiva dell’impossibilità di venire da lei le sere successive. Il postino riesce con una lettera, svelata come falsa, ad intenerirla nei suoi confronti. La donna cede ad un invito a cena ma quando sembra che tutto si sia risolto un’ombra alla finestra indica il ritorno del fidanzato che rabbioso rinuncia alle scuse della domestica. Il postino senza alcuna capacità di controllarsi lo uccide con un’ascia e la donna presa da enormi sensi di colpa sale in cima al palazzo e si lascia cadere.
Ma c’è un quarto personaggio, costantemente presente: la scenografia. Paul Leni viene nella maggior parte delle fonti indicato come secondo regista del film, ma le più autorevoli lo danno alle sole scene. Lo stile, il tono, i modi di rappresentazione, soprattutto per quanto riguarda il recitato, sembrano confermare le seconde ipotesi.
Ma se le prime sbagliano formalmente rivelano quanto il lavoro di Leni non sia per nulla subordinato a quello di Jessner, anzi senza il suo contributo Hintertreppe sarebbe forse stato un lavoro mediocre. La trama elementare, la ripetizione degli stessi gesti, la recitazione estrema di Kortner, senza la contestualizzazione scenografica avrebbero potuto incidere ben poco, e invece ecco che quegli stessi elementi sono talmente intensi e pregni di significato che fanno appello ai sentimenti più elementari e sinceri, comuni ad un pubblico di quasi cent’anni fa e ad uno spettatore d’oggi.
Possiamo bene parlare di quarto personaggio considerando che in Sylvester di Pick tale processo sarà portato alle estreme conseguenze col porre assieme, nei titoli iniziali, personaggi e ambienti: la moglie, il marito, sua madre, una strada, un cimitero, il mare.
Gli ambienti del film sono in tutto sei: la stanza da letto della domestica, il cortile interno del palazzo, la piccola casa del postino, la scala di servizio da cui prende nome il film, la casa dei nobili in cui la donna è a servizio e un corridoio tra questa e gli spazi della domestica. Ciascuno di questi ambienti ha una sua caratterizzazione e funzione specifica. Innanzitutto la disposizione di questi può aiutarci nella comprensione del film.
Abbiamo tre livelli: in alto la casa nobile dalla quale attraverso la scala di servizio si giunge all’ampio cortile, da questo scendendo altri scalini si giunge al seminterrato del postino, luogo poverissimo dove un cuscino vecchio rappresenta il massimo lusso. Questa subordinazione esprime da sola il carattere del postino, sottomesso, misterioso, invidioso, alla ricerca di sotterfugi. I nobili vivono ovviamente in alto ma in una dimensione quasi separata, una dimensione cui si accede attraverso un corridoio ripreso sempre dalla stessa angolazione che nel quadro include delle tende che richiamano immediatamente un sipario, come se attraverso di esso si passerebbe da una condizione tragicamente umile, povera, abietta quindi realistica ad un mondo edulcorato, affascinante, tutto apparente, quasi di finzione. Un passaggio dagli eroismi sognanti che la maggior parte del cinema celebrava al crudo realismo del Kammerspiel.
La stanza della domestica è povera ma viva: una sedia, un letto, uno specchio, un tavolino, un catino, un appendiabiti, una sveglia che suona alla prima scena in cui la donna al risveglio è serena e allegra, una stanza molto simile a quella della madre in Scherben in cui anche lì c’è una sveglia che suona, ma stavolta a vuoto ad indicare l’assenza della madre che è uscita disperata nella notte ed è morta nella neve.
Il cortile interno è stato più volte paragonato al cortile ideato da Ulmer, Herlth e Röhrig per Der letzte Mann (è un caso che entrambi ospitino uomini in cerca di affermazione orgogliosi della loro divisa?), ma questo di Leni ha per certi versi ancora più forza, coi suoi spigoli obliqui, le finestre asimmetriche, realizzato con un materiale così “macchiato” e “rugoso” da esaltare i giochi di luce, i contrasti abilmente tracciati. È un ambiente che prefigura le scenografie di Das Wachsfigurenkabinett (Il gabinetto delle figure di cera – 1924), il capolavoro assoluto di Leni.
La scala di servizio è certo il luogo più d’effetto, quello che resta nella memoria di ciascuno spettatore. È un luogo contorto, inquieto, il più tipicamente espressionista, luogo di incontri/scontri (la consegna della posta) e simbolo di subordinazione (la domestica cacciata di casa dopo l’omicidio). Tale tipologia di scala, rivestita di significati, sarà una costante del cinema tedesco e del lavoro teatrale di Jessner e altri, tanto che verrà indicata come Jessnertreppe proprio in suo onore.
La casa dei nobili è un luogo sempre vuoto, arredato secondo la moda, ci sono i segni ben visibili del passaggio degli abitanti ma questi non sono mostrati se non in piccoli angoli al fondo della scena o come ombre danzanti dietro vetri opachi, a mostrare la loro distanza, la loro alterità da tutto quanto accade “da questa parte” del mondo. Solo nel finale appariranno, in un aspetto bizzarro, straniante, pesantemente truccati.
Tutti questi elementi scenici sono un valore aggiunto che manca in Scherben, il cui naturalismo è più aderente all’idea di fondo del Kammerspiel ma rende l’opera, almeno visivamente, più debole, più soggetta all’invecchiamento e al mutamento dei gusti del pubblico. Hintertreppe invece ha una forza universale che prende vigore anche dai suoi aspetti più teatrali che nel tempo sono stati variamente criticati come debolezze. La peculiarità dell’apporto di Jessner è invece una preziosa intersezione tra le due arti.
Il momento più visibilmente teatrale è il finale, all’apparizione degli altri personaggi-abitanti del palazzo che per l’intero film erano rimasti come nascosti, in quella dinamica dentro-fuori tipica del Kammerspiel (la sicurezza contro la perdizione nei già citati film di Pick, ma anche in Die Straße del 1923 di Karl Grune e Nju del 1924 di Paul Czinner). Le numerose comparse si muovono come su un palcoscenico, le loro pose sono plastiche e lontane dai piccoli gesti sufficienti al cinema e soprattutto ad un Kammerspiel. Nell’ultimissima inquadratura la domestica si lancia dal tetto dell’edificio, le comparse guardano tutte verso l’alto e in un gesto improvviso abbassano tutte lo sguardo verso un punto preciso verso il quale si muovono, non abbiamo visto nessun corpo cadere ma il gesto collettivo è stato quanto mai esplicito.
Il cinema, soprattutto alle sue origini, pone come priorità il “mostrare”, il pubblico vuole vedere, e l’assenza di un corpo ne tradisce l’idea teatrale alla base. Ma un’ellissi è usata anche pochi minuti prima, nell’altra scena principale dell’omicidio, in cui vediamo solo il fatto compiuto, la staticità dell’ucciso e dell’uccisore.
Ma non si può non ammettere che “negando” allo spettatore le scene più forti queste assumano un valore più misterioso e meno risolutivo, impedendo alla vicenda di dirsi propriamente chiusa e affidandole un possibile prolungamento nella reale vita quotidiana.
Parafrasando Kracauer (2) i cosiddetti Kammerspiel sono “film dell’istinto”, che svelano impulsi e desideri disordinati in una società dominata da caos e spaccature. Hintertreppe è, sotto questa lettura, esemplare, con le sue separazioni, i suoi personaggi della classe medio-bassa incapaci di sublimare le proprie emozioni, con il Destino che incombe inesorabile sulla loro condizione subalterna. Il risultato al tempo fu talmente greve e negativo che alcune recensioni parlano di un pubblico infastidito e irritato da tanta miseria e tanta violenza.
Il Kammerspiel è in definitiva la scoperta da parte del cinema delle tragedie della vita quotidiana, lontana dai sogni, dalle fantasie, è la scoperta dell’uomo comune come possibile soggetto drammatico. È da qui che si apre la strada verso la Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) tedesca, i realismi francese e sovietico, il Neorealismo italiano.
È un gran peccato non poter constatare con dati reali e “visibili” come dall’artigianato, comunque alto di Dornröschen (1917), Leni sia arrivato a tale livello artistico. I film a cui ha collaborato tra il 1917 e il 1921 sono ben 13 tra cui cinque regie, ma se ne conservano solo tre: l’epico Veritas Vincit (1918) di Joe May, l’avventuroso Die Geier-Wally (1921) di E. A. Dupont e una grande produzione in costume, Lady Hamilton (1921) di Richard Oswald.
Affidandoci solo a testimonianze del tempo leggiamo di Leni come «il regista-pittore, personalità unica che piega tutti i suoi film ai suoi incantesimi tecnici»(3), «il Reinhardt del cinema»(4), «un artista visivo che ha saputo creare il giusto linguaggio cinematografico per tradurre la letteratura in sequenze di immagini con la potenza dell’opera d’arte, dove gli attori sono finalmente parte di un’immagine strutturata»(5) fino alle parole su Lady Hamilton in cui «Paul Leni ha raggiunto una maturità perfetta come creatore di immagini animate che lampeggiano come gioielli»(6).
La sua maturazione è palpabile, visibile e unanimemente riconosciuta.
Nel 1922 Leni sarà pronto per fondare una propria casa di produzione, la Paul Leni-Film GmbH e lanciarsi verso l’impresa di Das Wachsfigurenkabinett (Il Gabinetto delle figure di cera, 1924).
1. The Haunted Screen: Expressionism in the German Cinema and the Influence of Max Reinhardt, Lotte H. Eisner, University of California Press, 2008
2. Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Siegfried Kracauer, Torino, 2001
3. Der Kinematograph, Nr. 656, 30.7.1919
4. Hb. , Lichtbild-Bühne, Nr. 30, 26.7.1919
5. H. W. (= Hans Wollenberg), Lichtbild-Bühne, Nr.9, 26.2.1921
6. H. W. (= Hans Wollenberg), Lichtbild-Bühne, Nr. 43, 22.10.1921