Abituato all’André Antoine improntato con le riprese all’aperto e al suo verismo intriso di riprese cittadini e di persone vere, questo Israël mi ha davvero spiazzato. Sarà forse che si tratta dell’unica sua opera girata in Italia (per la romana Tiber Film) ma non posso che lodare la sua capacità di mimesi con le produzioni locali. Il film si ispira, come tradizione del regista, da un’opera teatrale scritta da Henry Bernstein nel 1908. Sono gli anni dell’affaire Dreyfus e la tematica dell’antisemitismo è piuttosto sentita in una patria divisa tra dreyfusardi e antidreyfusardi. La storia ricorda i drammi borghesi italiani costellati di grandi dive e problemi d’onore.
La Duchessa di Crouchy (Vittorina Lepanto) tradisce il marito per Giustino Gotlieb (Vittorio Rossi-Pianelli), un banchiere ebreo. I due hanno anche un figlio, Tebaldo (Alberto Collo), che ignora totalmente la sua vera natura. La relazione tra i due è sconveniente e si muovono addirittura gli alti gradi ecclesiastici (tra cui un prelato interpretato dallo stesso Antoine) che fanno seguire la duchessa da un gesuita, Padre Silvian (Alfonso Cassini). Questi riesce piano piano, con la promessa di una futura redenzione, a convincere la donna a interrompere la relazione scandalosa. Passano 20 anni e Tebaldo è un giovane politicamente molto attivo. Caso vuole che Gotlieb sia del suo schieramento oppopsto e a causa di questo, ironia della sorte, il figlio sfida a duello inconsapevolmente il padre. La verità viene presto a galla e Tebaldo non è capace di scendere a patti con la sua doppia natura di cristiano ed ebreo e decide quindi di togliersi tragicamente la vita…
L’adattamento cinematografico fatto da Antoine è un prodotto strano perché porta un testo pensato presumibilmente per creare scandalo e discussione in Francia in un contesto totalmente alieno a queste discussioni. La storia ne risulta quindi per certi versi trasformata e il senso trasfigurato anche in virtù di un cambiamento, volto dalla censura, non da poco che vede l’eliminazione dell’ultima didascalia con Gotlieb che dice: “La vostra opera è compiuta! ecco come voi salvate il mondo”. La versione priva di questa chiusa assume dunque una accezione totalmente antisemita in cui il protagonista non può accettare la sua natura ebraica ma vi deve convivere e, sentendo di non riuscire a prendere i voti, decide allora di uccidersi. Si tratta in realtà solo di un rafforzamento perché già l’opera originale di Bernstein era stata accusata all’uscita di antisemitismo e l’autore stesso si era dovuto difendere dichiarandosi per altro ebreo e fiero di esserlo. La versione cinematografica di Antoine viene totalmente inserita nel contesto italiano e eprde dunque il riferimento all’affare Dreyfus. Questa eliminazione, secondo Aurelio Spada che ne scrisse nel 1924 ne “la Rivista di Letture” è una mutilazione di una parte essenziale perché queste sono “lotte che il Bernstein ha poste a fondamento del suo dramma e, tolte le quali, tutti i personaggi diventano marionette assurde, antipatiche e incomprensibili“.
Ci troviamo in realtà di fronte a un film che, visto senza conoscere l’opera originale, è nella sua semplicità ben costruito e credibile ma, effettivamente, era proprio il contesto politico a rendere più profonda la narrazione e più tragico il riconoscimento. Rispetto all’opera originaria il centro della narrazione in Antoine è dato dall’amore impossibile mentre nell’opera di Bernstein la parte focale era, come nelle tragedie greche, focalizzata sul parricidio. Il legame con la tragedia antica non è casuale perché ritroviamo anche l’unità di tempo che invece nel film è spezzata dal passaggio di 20 anni tra la fase amorosa e quella della crescita di Tebaldo. L’opera inizia con il confronto tra Gotlieb e Tebaldo (Thibault) e questo permette di rendere i personaggi responsabili delle azioni che verranno. Nel film, come visto, è invece l’intervento ecclesiastico a generare tutto. Non bisognare però dimenticare quanto la chiesa influisse su cosa poteva essere raccontato o meno sul grande schermo specie in una casa di produzione romana. La censura del finale deve essere insomma vista anche come un tentativo di eliminare la critica all’ambiente ecclesiastico che viene comunque messo in scena come macchinatore e creatore, di fatto, di tutta la situazione tragica. Il personaggio di Gotlieb, seppur ebreo, non viene però stereotipato come avveniva in tanti altri film e rappresentazioni teatrali e, come giusto che sia, si veste e agisce esattamente come ogni altra persona che ha una vita agiata. Solo quando scopre che il figlio vorrebbe prendere i voti ha un moto di rabbia. Se da una parte Padre Silvian dice di non sacrificare la parte cristiana a quella ebrea e che “è da cristiano non uccidersi ma sopravvivere e soffrire!” Gotlieb saputa la notizia dice: “ho pianto mio figlio come non si potrebbe piangere un morto, e il vostro Dio, per quale ho già tanto sofferto, non me lo toglierà una seconda volta!”. Peccato che proprio questa reazione porterà il figlio a scomparire definitivamente suicidandosi. L’uomo però, rifiuta la sua responsabilità e proferisce dunque la frase censurata in cui critica alle macchinazioni ecclesiastiche che hanno portato alla morte di un ragazzo.
Il motivo di un film così atipico nella produzione di Antoine è da ricercare probabilmente nei rapporti con la produzione. Finita la guerra e desideroso di lavorare di fronte alle difficoltà economiche della SCAGL accettò volentieri la corte della Itala film che venne però poi acquisita dalla Tiber decretando mesi di avanti e indietro infruttuosi tra Roma e Torino. Il soggetto stesso, posto che comunque Antoine era strettamente legato al suo autore Bernstein, potrebbe per altro essere un’imposizione dei produttori che avevano acquistato i diritti per la versione cinematografica di Israël. Ci furono poi presumibilmente altri problemi come quello di dover, al contrario di quanto era abituato, lavorare con un cast diverso dal solito e con la necessità di valorizzare la diva Vittoria Lepanto. La critica, come detto, non apprezzò particolarmente l’opera perché denaturata delle sue componenti essenziali ma, nonostante questo, è comunque un film godibile che ha i suoi tempi narrativi costruiti e una sua linearità apprezzabile. Gli attori recitano in maniera espressiva, all’italiana, ma senza esagerare. Non mancano scene in cui troviamo estremismi, in particolare nelle movenze di Vittorina Lepanto e Vittorio Rossi-Pianelli, ma in generale si nota una certa pacatezza. Secondo quanto riportato nella sezione dedicata per le Giornate del Cinema Muto di Pordenone del 2005 neanche il pubblico apprezzò l’opera arrivando a fischiarlo e ridere nei momenti drammatici.
Bibliografia e sitografia:
- Billaut M., André Antoine au cinéma: une méthode expérimentale, 2021.
- Billaut M., «Israël è bella in teatro, ma in cinematografo no »L’adaptation cinématographique d’Israël d’Henry Bernstein en Italie par André Antoine, in Double jeu 14, online, 2017.
- Esnault P., Israël, nel catalogo de Le Giornate del Cinema Muto XXIV, online, 2005 [ultima consultazione il 14/08/2021].
- Ilcinemamuto.it: articolo dedicato al film [ultima consultazione il 14/08/2021].