Il Cinema Ritrovato ci sta portando a riscoprire, anno dopo anno, alcuni splendidi lavori restaurati di André Antoine grazie al contributo della Fondation Jérôme Seydoux-Pathé e della Cinémathèque française a cui, per questo film in particolare, si è unito anche il CNC. Riscoprire il cinema di Antoine vuol dire vedere una parte di cinema francese che generalmente non viene considerato dando maggiore spazio ai lavori sperimentali che anche in queste pagine abbiamo più volte analizzato. André Antoine era però un autore amato e apprezzato da pubblico e critica e questo non deve essere dimenticato se si vuole avere un quadro completo della storia del cinema francese. L’Arlesienne è l’ultimo film del regista che voleva rilanciarsi con un’opera di sicuro successo dopo i problemi avuti con la produzione durante la lavorazione de L’Hirondelle et la Mésange, girato nel 1920 ma che verrà montato e uscirà solo nel 1983 (vi rimando all’articolo specifico se siete interessati). Anche a teatro Antoine era solito passare quest’opera se veniva da un periodo meno proficuo perché la storia era sempre capace di far accorrere gli spettatori e anche al cinema successe la stessa identica cosa.
La fattoria Castelet vede vivere felicemente come parte di una grande famiglia la “matrona” Rose Mamaï (Lucienne Bréval), nonno Francet (Léon Malavier), il pastore Balthazar (Louis Ravet), Janet “l’innocente” (Fleury) e il giovane ed energico Frédéri (Gabriel de Gravone). Proprio Frédéri un giorno andando nella vicina città di Arles incontrerà una ragazza del posto (Marthe Fabris) da cui riceverà un fiore. Tra i due nasce presto una relazione che culmina in una proposta di matrimonio. Peccato che proprio quando stanno per fissare la data non arrivi una terribile notizia: l’allevatore di cavalli Mitifio (Charles de Rochefort) dichiara infatti di essere stato per due anni amante dell’Arlesiana e porta due lettere a conferma di tutto. A Frédéri crolla il mondo addosso e pensa che mai più potrà fidarsi di una donna perché tutte potrebbero mentire e nascondere un passato terribile. Entra in scena la giovane Vivette (Maguy Deliac) che da sempre lo ama segretamente. Quando Rose, preoccupatissima, arriva a proporre al figlio di sposare ugualmente l’Arlesiana pur nel disonore, Frédéri risponde dichiarando che sposerà invece Vivette. Il giorno delle nozze succede però qualcosa che distruggerà tutto. Passa a Castelet Mitifio che confida, venendo sentito da Frédéri, che è tornato dall’Arlesiana e stanco dei litigi e tormenti vari la porterà via dalla città con sé quella notte stessa. Frédéri si finge allegro ma la notte si apposta per vedere i due amanti fuggire via. Distrutto per non aver più la possibilità di stare con la sua amata decide dunque di suicidarsi.
Portare l’Arlesienne prima a teatro e poi al cinema stravolge inevitabilmente alcuni elementi chiave della narrazione costringendo Antoine ad inserire degli elementi nuovi per poterlo rendere più fruibile. Nel racconto originale non ci sono, infatti, le vicende sono molto meno intricate: non è presente Vivette così come tutte le figure di contorno come il pastore e “l’innocente”. Nella versione teatrale di Alphonse Daudet, troviamo una trama molto simile a quella della versione cinematografica ma con un elemento decisamente non secondario: la Arlesiana enne non si mostra mai lasciando un senso di inafferrabile bellezza dietro di sé. Questa sostanziale differenza tra le opere originali e il film venne criticata da tanti tra cui Marcel L’Herbier, il quale disse che “questa idea di mostrare l’Arlesiana, questa evocazione senza ombra, questo personaggio favoloso che si è intestardito a far vedere“. Tenendo presente questa novità, le scelte di Antoine nel caratterizzare la ragazza diventano molto importanti. Forse volo troppo con la fantasia e ho pregiudizi negativi nei confronti della morale dell’epoca, ma far vedere la ragazza di Arles fare sempre i primi passi di seduzione verso Frédéri potrebbe essere sintomatico di una ragazza fin troppo disinibita facendo scattare qualche campanello d’allarme nello spettatore che non conosceva la vicenda. Cercando di catturare l’attenzione e l’amore del giovane, la ragazza prima finge di prendersi una storta accortasi che lui la stava seguendo, poi sarà sempre lei a dare il primo bacio all’amante. Non bisogna dimenticare che già al loro primo incontro era stata proprio lei a lanciargli una rosa facendogli capire di averlo notato. Essendo un’introduzione originale sicuramente un qualche valore l’avrà avuto. Non manca inoltre un forte coinvolgimento emotivo, almeno da parte mia, al pensiero della povera Arlesiana che, a causa di lettere compromettenti, si ritrova costretta di fatto sotto ricatto a dover andare a vivere con un uomo che non solo non ama ma che presumibilmente la vesserà in ogni modo. Certo, probabilmente per l’epoca, era la giusta punizione per non essere giunta “illibata” al matrimonio ma con gli occhi dello spettatore odierno la cosa fa orrore. Calandoci negli occhi di un uomo del passato bisogna sottolineare come uno dei momenti topici, e questo fin dal racconto originale, era la concessione, da parte del padre nella prima versione e poi della madre nelle altre, di acconsentire, pur di arrivare ad una nuova serenità, al matrimonio tra il figlio e l’Arlesiana. Questo determinata una rottura verso la tradizione e il buon gusto tanto che il pastore dichiara che avrebbe lasciato il suo lavoro qualora fosse avvenuto preferendo mille volte la morte del giovane a questo disonore. Arrivata la morte ecco che lo stesso personaggio, per nulla pentito di quanto detto, si limita a redarguire il fratello della signora Mamaï che negava si potesse morire per amore.
Nel film ritroviamo tutta l’attenzione documentaria di Antoine nei confronti della realtà locale e sappiamo, anche grazie alle testimonianze contenute nel libro di Manon Billaut, che egli si recò sul posto come sempre, pur avendo già messo in scena a teatro più volte il racconto, e che cercò di ricostruire minuziosamente i costumi tipici basandosi su alcune immagini che aveva trovato non essendo presumibilmente più utilizzati. Ecco però che troviamo la corrida e poi i balli durante la festa di fidanzamento. Parte centrale ce l’ha ovviamente quasi ogni aspetto della vita agreste, in particolare legata alla produzione del fieno con i lavoranti e le paghe distribuite ai braccianti di giornata. Come da tradizione di Antoine, le riprese vengono fatte il più possibile all’aperto, nella natura, e nelle riprese cittadine gli attori si confondono con le persone del posto per creare un effetto più realistico possibile. Girare fuori dagli studi vuol dire però che non sempre l’illuminazione è adeguata e per ovviare a questo Antoine utilizzò un apposito gruppo elettrogeno che risultò particolarmente efficace negli spazi ombreggiati della fattoria di Castelet. Come sempre Antoine, prima di scrivere la sceneggiatura, si era calato nella realtà locale e tramite il libro della Billaut vi riporto una lettera del regista al figlio che traduco liberamente “L’Arlésienne è in cantiere e ne sono immerso fino alle spalle, ma per mettere a punto tutte le cose mi ci vorrà un rodaggio di una settimana in quei luoghi”. Grazie allo splendido restauro, che rende giustizia ad una fotografia curatissima, è possibile perdersi in piccoli dettagli carini che vanno dai particolari scenografici ai locali che sbirciano la telecamera incuriositi mentre ci sono le riprese. Caratteristica di Antoine è anche quello di usare una cerchia di persone ristrette tra gli attori e qui, rispetto al precedente L’Hirondelle et la Mésange, ritroviamo Maguy Delyac e Louis Ravet.
Piccola menzione al ruolo de “l’innocente”. Da specializzato sul sostegno e portatore di valori inclusivi, il suo ruolo da “figlio delle fate” è un pochino deprimente anche se il racconto è della fine dell’800 e quantomeno il personaggio ha un valore positivo ed ha più che altro una funzione oracolare. Quando, infatti, Frédéri sta per andare ad Arles, dove incontrerà l’Arlesiana, lui chiede di andare insieme anche se non viene ascoltato. Poi ripete ossessivamente una delle fiabe raccontate dal vecchio pastore in cui la morale, sostiene, è quella di darci un taglio subito se si è cacciati da un lupo piuttosto che soffrire a lungo con la sorte segnata. Il lupo è Mitifio e il povero Frédéri è l’agnello che farà una brutta fine a causa delle pene d’amore.
Se avete trovato dei rimandi alla celebre Carmen non è forse un caso perché alla fine il rapporto Frédérì, l’Arlésienne e Vivette ricorda un po’ quello tra Don José, Carmen e Micaela e in entrambi i casi bisogna ricordare che le musiche erano di Bizet. Le opere, del resto, sono molto vicine nel tempo: parliamo di 1872 per la trasposizione teatrale di Daudet e 1873 per quella di Meilhac e Halévy, mentre le storie originali datavano invece rispettivamente 1869 e 1845.
Come detto all’inizio, questo è l’ultimo film di André Antoine che poi si dedicherà ad una fruttuosa carriera da critico cinematografico. Perché questa chiusura? A causa di un litigio con la casa di produzione e Pierre Decourcelle nello specifico reo di aver imposto un montaggio diverso da quello voluto da Antoine. Riporto, dal catalogo del Cinema Ritrovato 2021, la citazione del regista ormai deciso a darci un taglio con il cinema: “Se avessi vent’anni di meno invece di chiacchierare farei il cinema libero, libero dalle abitudini, dagli intrallazzi, dai consorzi e dai pigri che l’hanno portato dov’è ora“.
Alla fine di questo lungo articolo, purtroppo non accompagnato da tante immagini quante avrei voluto, rinnovo la speranza nel rivedere, almeno digitalmente, le versioni restaurate dei lavori cinematografici di Antoine in un prossimo futuro. Terrò ovviamente aggiornato l’articolo qualora dovesse succedere, per ora è possibile vederlo solo attraverso il Gaumont-Pathe Archives.
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