Cainà o L’isola e il continente – Gennaro Righelli (1922)

CainàCon Cainà il cinema italiano si sposta in Sardegna per omaggiarla con uno stile naturalista e attento degno di Grazia Deledda. Ma la particolarità del film non è solamente la sua attenzione al folklore, cosa che lo rende un documento inestimabile, ma anche la sua capacità di dare vita a un personaggio femminile molto interessante e mosso da motivazioni diverse dal solito, più umane e legate alla letteratura delle origini. Come una nuova Ulisse, Cainà, personaggio creato da un soggetto di Adriano Piacitelli e Maria Jacobini (che interpreta anche la protagonista) e sceneggiata poi dal futuro marito e regista del film Gennaro Righelli, è infatti pervasa da un desiderio di conoscenza, dalla voglia di partire dal suo villaggio per esplorare il mondo e vivere l’emozione del viaggio marittimo. Ma come Ulisse finirà per incontrare più dolore che felicità.

Cainà (Maria Jacobini), figlia Giantolu (? Carmi) e di Agnes (Ida Carloni Talli), alla vita di campagna e alle fatiche preferisce ascoltare il racconto dei marinai e sognare di partire. A nulla valgono le dolci attenzioni di Agostineddu Pinna, Cainà vuol assolutamente andar via. L’occasione si presenta quando una nave proveniente dalla Corsica attracca nelle vicinanze. Approfittando della notte la giovane sale sulla nave e parte per una nuova avventura. Il viaggio non è semplice anche perché se da una parte è felice per aver finalmente coronato il suo sogno di libertà si ritrova a dover fronteggiare i tentativi di violenza del marinaio Pietro (Carlo Benedetti). Si concederà a lui solo dopo che l’uomo è riuscito a vincere la furia della tempesta portando la nave sana e salva a casa. Arrivati in Corsica si apre una nuova pagina triste della vita di Cainà perché viene rifiutata dalle sorelle di Pietro e allo stesso tempo si rende conto che la vita lontano da casa non è poi così bella come pensava. Un giorno decide quindi di provare a fare ritorno nella sua terra nativa. Dopo essere sfuggita all’ennesimo tentativo di abuso da parte di Pietro, a cui non si era più concessa dopo la famosa tempesta, la giovane salpa nuovamente per il suo piccolo villaggio. Giunta scoprirà di essere stata rifiutata da tutti: a seguito della sua partenza il padre era morto nel tentativo di trovarla e la madre, per il dolore, aveva avuto un episodio ischemico che le aveva paralizzato il corpo. La popolazione, vedendola, insorge maledicendola e la ragazza si ritrova a fuggire. Agostineddu, reso quasi folle dalla partenza della giovane, la colpisce dalla scogliera con un sasso provocandole una ferita mortale che la ragazza interpreta come un pegno d’amore. Grazie al giovane può finalmente morire, ricongiungendosi al mare che tanto ha amato, e sfuggire alla sofferenza della vita.

Se anche è vero che le conclusioni a cui giunge la vicenda sono simili a tante altre che legano da una parte il tradimento nei confronti dei cari e della famiglia (il nome Cainà è del resto un riferimento al personaggio di Caino) e dall’altra “l’impudicizia”, qui le ragioni della protagonista sono la cosa che differenzia la storia dalle altre. Come detto essa è mossa più che altro da un desiderio di raggiungere il mare, di viaggiare e fuggire da un luogo da cui non si sente rappresentata e in cui sente di non appartenere. Tutto quello che capita dopo è quasi una diretta conseguenza ma, anche per questo, a uno spettatore moderno appaiono ancora più ingiuste. In un contesto come quello rurale, fortemente legato alla famiglia e alla tradizione, è evidente che anche solo la sua partenza rappresentano un tradimento e un motivo per cui debba essere esclusa dalla società. A proposito dell’elemento locale e culturale, Cainà, come detto, contiene splendidi elementi documentari con testimonianza del Ballu Tundu ma anche del celebre Attitu funebre, fatto dalle donne per il povero Giantolu morto. Splendide sono anche le riprese sulla nave che permettono, pur nella loro semplicità, di rendere in maniera estremamente vivida il viaggio marino di Cainà e il dramma della tempesta. Passiamo allo stile recitativo, forse nota dolente del film, con una Maria Jacobini forse troppo “borelliana” nell’esprimere i propri stati d’animo. Righelli ama soffermarsi su di lei e sulle espressioni del suo volto e del corpo che non sempre però sono del tutto funzionali per la loro eccessività.

La vicenda di Cainà mi ha ricordato la celebre Extraterrestre di Eugenio Finardi con “il tipo che viveva su un abbaino” che chiede di essere portato via e, una volta giunto sulla nuova Terra si rende conto che “si sente ancora vuoto e in lui niente è cambiato” e chiede quindi di poter tornare indietro. Cainà riesce a farlo ma tutto è cambiato e lei è ormai un elemento estraneo, una malerba che deve essere sradicata. Il finale, scontato ma realizzato in maniera a mio modo di parare quasi ridicolo, è l’unico possibile perché è l’unico che possa ristabilire l’equilibrio all’interno della comunità.

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