Il Fuoco – Giovanni Pastrone (1915)

Il Fuoco di Giovanni Pastrone, qui sotto lo pseudonimo di Piero Fosco, è un film molto interessante perché dimostra la sua duttilità come regista. Un anno prima usciva Cabiria, che aveva cambiato per sempre la storia del cinema, caratterizzato da scenografie maestose e dalla presenza di milioni di comparse. Con il Fuoco ecco invece il ritorno all’essenziale con una vicenda che ruota tutto intorno a due attori e poco altro. Tema principale è la passione, il fuoco che arde nell’animo umano quando scoppia l’amore.

Una giovane poetessa (Pina Menichelli) e il pittore Mario Alberti (Febo Mari) si incontrano sulle rive di un lago mentre entrambi racchiudono con la loro arte uno splendido tramonto vermiglio. Per Mario è un colpo di fulmine. La poetessa, donna dal fascino mortale, si crogiola di questo sentimento. Una sera giunge a casa del pittore e gli propone due possibilità: restare dove si trova o seguirla, ma tenendo presente che il loro rapporto sarà breve, ma intenso: “Vedi! Come la passione la sua fiamma si leva fino al cielo e abbaglia. Ma dura solo un attimo”. L’uomo la segue fiducioso, e grazie a lei riesce a diventare un pittore famoso. Ignora che la poetessa è già sposata e così, al ritorno del ricco marito, lei lo abbandona senza troppe spiegazioni. Il giovane, vistosi respinto impazzisce per il dolore.

In questa sua prima prova cinematografica, Pina Menichelli si mostra come donna-gufo: forte, indipendente e fatale. Dice Gian Piero Brunetta: la Menichelli è soprattutto  “la femme fatale […], l’essere dotato di uno sguardo che paralizza, un bacio che avvelena e di un abbraccio che soffoca e precipita negli abissi del peccato”¹. Questa è la caratteristica di molte delle donne protagoniste dei film italiani e sarà proprio questo elemento a rendere l’attrice una delle grandi dive. Sarà così anche per Tigre Reale dello stesso Pastrone (1916), nonostante la problematica legata ai finali che affronteremo nell’articolo dedicato. Caratterisitca particolare di questo racconto è la mancata punizione del personaggio negativo del racconto, che dopo aver rovinato l’esistenza di Mario Alberti torna sprezzante alla vita di tutti i giorni. Il film presenta un rimando a una sezione trattata durante il Cinema Ritrovato, quella della migrazione in particolare per quanto riguarda il Jockey della morte. Anche qui, è presente uno dei grandi nomi del cinema europeo, passato in Italia per fare cinema. Si tratta di Segundo de Chomón che alla fotografia firma la scena più bella del film, quando la Menichelli rompe la lampada a olio e mostra quanto può essere ardente ed effimero il sentimento che lei gli promette (immagine ritratta nel manifesto scelto).

¹G. P. Brunetta, Il cinema muto italiano, Bari 2008, pp. 89-90.

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