Il Cinema Ritrovato ha spesso riservato sezioni al cinema muto indiano e, volente o nolente, le mie personali visioni e successive scorribande sono sempre partire da lì. Questa è però forse la prima volta che il filone religioso/mitico incontra il mio favore forse perché il franco-indiano Béhula ha al suo interno elementi talmente tanto bizzarri e affascinanti da avermi rapito. Ulteriore nota di merito alla splendida musica di accompagnamento composta da Keyvan Chemirani e che meriterebbe di essere ascoltato anche staccata dal film!
La storia è più o meno la seguente: dopo la sua nascita da un fiore di loto, Manasa, dea dei serpenti, viene invitata da Shiva a farsi venerare da Chand Sadagar. La presenza di Manasa non è però gradita a Chandi, sposa di Shiva, che decide di metterle saltuariamente i bastoni tra le ruote. Altro problema è dato proprio da Sadagar che si rifiuta di riconoscere la nuova dea arrivando persino a distruggere le sue effigi e bruciare il suo tempio. La vendetta di Manasa è implacabile e decide di uccidere tutti i figli dell’uomo. Perde però la bacchetta che Sagar usa per resuscitarli temporaneamente. Sì temporaneamente perché la dea, presa in giro dall’infedele, recupera lo strumento magico e uccide nuovamente i figli. La vicenda non è però finita perché quando iniziano le reincarnazioni ecco nascere due giovani destinati ad amarsi ma tristemente. A Sadagar nasce un nuovo figlio che secondo l’oracolo è però destinato a morire per colpa di un serpente il giorno delle sue nozze. Il giovane si innamora però di Béhula, la quale lo sposa senza riuscire ad evitare il destino dell’uomo. Riesce però a farsi dare udienza dagli dei e, dopo aver cantato la sua vicenda, viene perdonata da Manasa che, dopo aver ottenuto gli onori di Sadagar, riporta in vita il figlio appena defunto.
Esclusa Patience Cooper non abbiamo informazioni riguardo agli interpreti che restano tutti dunque avvolti dall’ombra. Come detto il film è davvero affascinante ed ha ritmi e scelte recitative e iconografiche molto lontane dalle nostre. Ignoro quanto di questo sia pensato con un punto di vista locale o quanto per essere poi esportato come succedeva in film come Shiraz in cui si presentava un oriente stereotipato visto dagli occidentali. Le scelte iconografiche sono interessanti ed è fatto largo uso di effetti “speciali” che paiono disegnati proprio sulla pellicola con l’uso di strisce bianche a simulare nuvole, fulmini e altri effetti bizzarri. Interessante anche l’uso dell’esposizione multipla per dare vita ad ascensioni o alla bizzarra scena della reincarnazione a bordo di una nuvoletta che, bisogna dirlo, ha strappato non poche risate in sala quando si è bloccata nella sua discesa. Sebbene il film sia del 1921 e per certe cose sia piuttosto conforme al suo periodo non mancano elementi decisamente retrò come i balletti stile corti francesi dei primissimi del ‘900 con cartonati e cose bizzarre. La narrazione, seguendo un elemento mitico, non presenta elementi di particolare originalità pur tenendo presente che essa va inserita nel contesto culturale che ben poco ha a che fare con il nostro.
Concludendo, anche Béhula è uno di quei film che mi hanno colpito positivamente all’interno del festival. Non si tratta certamente di una delle opere di maggior rilievo presentate, ma la componente esotica e le trovate originali hanno contribuito a renderlo apprezzabile e godibile anche in una giornata di festival pienissima.
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