La vita per la vita (Zhizn za zhizn-Жизнь за жизнь) – Evgenij Bauer (1916)

Di Evgenij Bauer abbiamo già parlato qui su E Muto Fu, a proposito di quello che è ritenuto il suo capolavoro, Dopo la morte del 1915. Nonostante la sua breve carriera – morì nel 1917 – e l’ambito ristretto della sua produzione, perlopiù incentrata su drammi ambientati nell’alta società, sono molti i suoi film interessanti. Se Dopo la morte è il più conosciuto e citato, bisogna ammettere che non vi è un vero squilibrio tra capolavori e passi falsi nella sua cinematografia: i suoi risultati sono sempre mediamente alti, segno di una mano ferma e di un’idea ben precisa del suo mestiere.
La vita per la vita, anche conosciuto come Una goccia di sangue per ogni lacrima, è il prodotto di una società irrigidita e spenta, colta nel suo culmine formale, a pochi passi dal tracollo bolscevico. La vicenda rispecchia un copione sociale, più che artistico, la sceneggiatura dello stesso Bauer rappresenta e non crea: la contesa tra sorelle, la rinuncia all’individualità, il silenzio preferito allo scandalo, l’ingiustizia per assicurare la stabilità, sono tutti elementi, in quegli anni, quotidiani e vitalmente necessari ad una struttura sociale costruita su apparenza e grado.


Il principe Bartinskij, durante uno dei frequenti incontri dell’alta società, attira le attenzioni di Musja e Nata, entrambe figlie della vedova Chromova. Mentre Musja è figlia naturale, Nata è stata adottata: se non vi sono disparità affettive della madre nei confronti delle figlie, l’eredità è invece del tutto in dote a Musja. Tra Bartinskij e Nata nasce un amore sincero, ma entrambe le famiglie sconsigliano fortemente l’unione; un matrimonio con Musja, al contrario, sarebbe ben vantaggioso per tutti. Bartinskij, anche se inizialmente a malincuore, accetta e Nata, rinunciandovi con devozione filiale, asseconda gli interessi del vecchio Zurov, amico di famiglia e sovrintendente alle economie dei Chromova. Ma la frequente vicinanza tra Bartinskij e Nata rinfiamma presto la loro passione che, se in un primo momento viene tenuta nascosta, successivamente si palesa sempre più sfrontatamente. Pur di non destare scandali, l’infedeltà viene tollerata a lungo; solo alla scoperta di false cambiali intestate a Zurov ma firmate da Bartinskij, che stava già dilapidando il patrimonio della moglie, il caso esplode. Ricorrere alla giustizia pubblica vorrebbe dire mettere in piazza tutti i loro affari privati, così, dopo il tentativo non riuscito di Zurov, è la stessa vedova Chromova ad applicare una giustizia personale, colpendo il principe con un preciso colpo di pistola. Ma un gesto tale sarebbe troppo forte da attribuire ad una signora, troppo sincero, troppo giusto, troppo vero: la buona società non lo sopporterebbe. Meglio rivestirlo di dramma, di pentimento, magari anche di conversione e di conseguenza la versione ufficialmente diffusa parla di suicidio: la colpa è di nessuno, la colpa è di tutti.


Il tocco di Bauer è netto, riconoscibile come se ogni fotogramma fosse firmato. Innanzitutto in quelle inquadrature contenenti carrellate mobili, avanti o dietro – a rivelare o a scoprire l’ambiente – che sono la sua figura retorica più esplicita. Ma qui, ancora più che in Dopo la morte, c’è ovunque un tentativo forsennato e anche un po’ pignolo di moltiplicare la scena e renderla polidimensionale, sovrapposta, viva. L’ambizione di Bauer non sembra tanto quella di fuggire la staticità scenica del teatro, quanto quella di portare la scena in uno spazio reale e cangiante. Ostacoli, separazioni, confini visivi e architettonici, porte, archi, colonne, scale, c’è sempre un punto focale, un qui in cui si agisce e un altrove dove l’azione principale si ripercuote: nella stessa immagine causa e conseguenza. I personaggi si allontanano e si avvicinano alla macchina da presa molto più di quanto si muovano longitudinalmente e tutto questo spazio, continuamente esplorato, suggerisce e sottolinea le distanze tra i personaggi, le dinamiche familiari, le passioni, le solitudini.
Una sceneggiatura non certo originale diventa così, anche grazie ad una drammaticissima e inquieta interpretazione di Vera Kholodnaya, un’opera intensa ed esemplare del primo cinema russo.

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