Jean Renoir ha sempre sostenuto una posizione fortemente antimilitarista e la sua visione anticonformista del mondo militare e dei personaggi che lo abitano è evidente anche in Tire au Flanc adattato da un’opera teatrale in tre atti di André Mouézy-Éon e André Sylvane.
Per Jean Dubois (Georges Pomiès), giovane poeta e rampollo dell’alta società, è giunto il momento di arruolarsi. Una volta arrivato in caserma è lontano dalla fidanzata e da qual mondo che gli permetteva di esprimersi liberamente. Già considerato goffo, idiota ed impacciato da famigliari e amici questa nomea continuerà a perseguitarlo anche tra i militari. Uno dei suoi compagni di brigata è particolarmente infastidito dal suo essere sopra le righe, noncurante delle regole ed etichette da caserma. Così dopo l’ennesima scazzottata Jean e il suo nemico vengono rinchiusi in prigioni singole, con poco cibo, tanti ratti e pochi divertimenti per il poeta, ma doppia razione, giornali e sigarette per il prepotente. Questo avvenimento servirà al rampollo per acquisire maggior scaltrezza e furbizia, infatti Jean nell’allegro finale riuscirà ad avere la sua rivincita.
Jean Renoir si diverte nel mostrare scene di guerre con cuscini e coperte, trasformando i soldati in bambinoni irrequieti, sequenze che potrebbero aver ispirato, per la libertà nei movimenti di macchina, Jean Vigò per il suo Zero in condotta. Renoir tende soprattutto a creare personaggi che, poco approfonditi e abbozzati, sembrano voler essere caricature da strisce satiriche. Ad avvalorare questa percezione sono le didascalie che, minuziosamente curate, presentano un carattere più ricercato rispetto a quello standard e soprattutto ognuna è accompagnata da un’immagine stilizzata che fa riferimento iconograficamente a ciò che è scritto e quel che avviene nelle scene successive. Il bruto grosso e alto, ma senza cervello che si arrabbia con il gracilino perché ha la testa tra le nuvole. A sorvegliare e tifare per il più forte ci sono i compagni di reggimento, che sembrano più un branco di scimmie impazzite che saltellano in qua e in là portando vasi con acqua per far rinsavire il moribondo e buttando all’aria lenzuola, cuscini e materassi per l’incontenibile eccitazione. Intanto i colonnelli e superiori vari, che dovrebbero essere uomini rispettabili e rigorosi, si sollazzano con dolci compagnie. Ricorda qualcosa?
Jean Renoir racconta Tire au flanc come di un film considerato commerciale, quindi realizzato seguendo i canoni dei commercianti. Venne “girato in tempi stretti e con un preventivo molto ridotto. Ebbi la fortuna di farvi debuttare Michel Simon che era già il grande attore che è rimasto. […] Le riprese di questo film burlesco, con delle parti tragiche e altre fiabesche, senza grandi rapporti con l’opera teatrale da cui era tratto, mi ha procurato grandi soddisfazioni”.
Su tutte le sequenze ce n’è una che già qui fa impazzire dalle risate, ma che Renoir riproporrà in uno dei suoi capolavori La grande illusione, ovvero quella del teatrino organizzato dalle giovani reclute. Questa lunga sequenza è probabilmente la più particolare del film in termini di movimenti fluidi, ma rapidi e leggerissimi della macchina da presa, con la quale Jean Renoir fa percepire la sua voglia di sperimentare e la sua sensazione di libertà. La messa in scena di questo spettacolo musicale, danzato e en travesti verrà poi rivisto e riformulato. In questo caso il suo umorismo e l’irriverenza puntano soprattutto a divertire, cercando la risata da slapstick, nella versione successiva è egualmente priva di peso, ma la sofferenza di fondo nella narrazione viene trasformata in malinconia che è, come scrive Italo Calvino, tristezza diventata leggera.